Francesco – Benedetto: continuità o rottura?

Dalla dittatura del relativismo alla cultura dello scarto. Un articolo, uscito su “Palabra" (novembre 2014), di Mariano Fazio, vicario dell’Opus Dei in Argentina, autore de “Papa Francesco. Le chiavi del suo pensiero”, Ed. Ares, 2013.

Sono passati ormai parecchi mesi dall'elezione di Francesco come successore di Benedetto XVI. Il cambiamento di stile è assai evidente, come fu, a suo tempo, il cambiamento d'immagine del pontefice nella persona di san Giovanni XXIII, così diversa da quella di Pio XII, o la differente personalità di Paolo VI, più riservato e intellettuale rispetto al carismatico Papa Buono. Questo stesso fatto si è ripetuto nella successione di san Giovanni Paolo II rispetto al neo-elevato agli altari beato Paolo VI – senza contare i trentatre giorni del sorriso di Papa Luciani, che attenuarono il cambiamento – e, infine, in quella di Benedetto XVI rispetto al santo papa polacco.

I cambiamenti di stile dei Papi sono insiti nella componente umana della Chiesa. Gli esempi degli ultimi decenni che abbiamo citato corrispondono a uno dei momenti storici più positivi del pontificato romano. Questa diversità è una ricchezza, perché lo stile di una persona è molto legato alle proprie caratteristiche e alle tradizioni culturali che stanno dietro a una personalità. Ultimamente, la Chiesa si è arricchita della tradizione slava di Karol Wojtyla, di quella mitteleuropea di Joseph Ratzinger e ora di quella latino-americana di Jorge Mario Bergoglio.

Dal punto di vista del carisma individuale, il noto giornalista nord-americano John Allen ha arrischiato un paragone musicale: Giovanni Paolo II è un "rock and roll", Benedetto XVI è un "classical" e Francesco è un "folk". Naturalmente, lungi dalle sensibilità esclusorie, sappiamo che Giovanni Paolo II nominò vescovo e cardinale Jorge Bergoglio, che Benedetto apprezza il papato di quest'ultimo e che, da parte sua, Francesco adornava una parete della sua semplice camera di Buenos Aires con un poster del papa tedesco.

È veramente il caso di sottolineare l'affetto e l'ammirazione che Papa Francesco ha dimostrato verso il suo predecessore. Mi permetto di raccontare un ricordo personale. Nell'agosto del 2008 ho accompagnato l'allora Cardinale Bergoglio in un breve percorso in macchina per le strade di Buenos Aires. Quella volta mi ha confidato che ciò che più ammirava di Papa Benedetto era l'umiltà e il magistero. Ricordando queste parole dopo la rinuncia di papa Ratzinger, mi sono reso conto di quanto esse fossero profonde: effettivamente Papa Benedetto passerà alla storia proprio per la sua umiltà e per il suo magistero.

Il cambiamento di stile e il rapporto personale di affetto e ammirazione verso Benedetto XVI appaiono chiaramente nelle parole e nei gesti di Papa Francesco. Però, che dire del magistero pontificio attuale rispetto a quello precedente? Hanno qualcosa in comune la cultura dello scarto e la dittatura del relativismo?

La dittatura del relativismo

Lunedì 18 aprile 2005 il Cardinale Joseph Ratzinger ha presieduto la Santa Messa che dava inizio al Conclave che doveva eleggere il successore del defunto Papa Giovanni Paolo II. All'omelia, il Decano del Collegio Cardinalizio ha messo in evidenza le circostanze culturali che avrebbe dovuto affrontare il futuro successore di San Pietro – senza sapere in quel momento che egli stesso era il principale destinatario del suo messaggio –. In un paragrafo centrale affermava: "Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all'altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all'individualismo radicale; dall'ateismo a un vago misticismo religioso; dall'agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice san Paolo sull'inganno degli uomini, sull'astuzia che tende a trarre nell'errore (cfr. Ef4, 14). Avere una fede chiara, secondo il credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare 'qua e là da qualsiasi vento di dottrina', appare come l'unico atteggiamento all'altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie".

La dittatura del relativismo o, volendo esprimermi in positivo, la necessità e l'urgenza di ricuperare la fiducia nella possibilità di raggiungere la verità attraverso la fede e la ragione in una società pluralista, è stato il punto centrale del magistero del precedente pontificato. I famosi discorsi di Ratisbona, Westminster Hall e Bundestag sono magnifiche dimostrazioni di questo interesse e di questa preoccupazione, consacrando l'idea della sana laicità come superamento del laicismo e del fondamentalismo.

Il relativismo è la crisi della verità, perché si ritiene che l'essere umano non sia capace di accedere a ciò che è vero, all'etica universale, ad alcune idee fondamentali che possano essere condivise da tutti, indipendentemente dalla storia e dalla cultura. Questo non è, esclusivamente, un tema di logica o di filosofia della conoscenza; è un atteggiamento generalizzato dinanzi alla grande sfida della verità. Si dimentica che Gesù ha detto "la verità vi farà liberi" e si ha la sensazione che la verità sia una sorta di tetto che limita le nostre possibilità e la nostra capacità personale di esprimerci o, come soggetto collettivo, la nostra fioritura culturale. In questa chiave, la verità è una restrizione del nostro potenziale creativo. Tuttavia, per edificare qualcosa di duraturo è necessaria la verità, un punto fermo sul quale si dispieghi la creatività sociale e individuale. Quanto più solida è questa base, più alta sarà la costruzione, maggiori saranno le possibilità, la libertà di progettare, le idee da proporre. La verità, su questa stessa linea, è la base del nostro progresso e della nostra innovazione.

Alcune volte si corre il rischio che la verità induca a guardare "l'umanità da un castello di vetro per giudicare e classificare le persone" – citando le parole di Papa Francesco pronunciate nel discorso di chiusura del sinodo sulla famiglia -. Tuttavia, nel discorso non pronunciato a La Sapienza di Roma, Papa Benedetto riflette con sant'Agostino sul fatto che la verità teorica – con le sue astrazioni, i suoi giudizi e le sue classificazioni – da sé sola porta alla tristezza, e che la verità integra consiste nella conoscenza del bene; pertanto, "la verità ci fa buoni", e in tal modo ci introduce nella carità e nell'accoglimento dell'altro.

La cultura dello scarto

Papa Francesco, da parte sua, ha sviluppato, da una prospettiva diversa, ciò che egli chiama la "cultura dello scarto": una società che mette da parte gli anziani, i malati, i giovani, perché ha concentrato la sua attenzione sul proprio io, esaltando il dio-denaro, il dio-piacere e il dio-potere. Nella Evangelii Gaudium lo afferma esplicitamente: "Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata".

In tal modo ci troviamo anche di fronte alla denuncia di una dittatura, in questo caso non nell'ambito delle idee ma su un piano materiale: "L'adorazione dell'antico vitello d'oro (cfr Es32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano" (EG, 55). Questa dittatura "riduce l'essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo", cosa che si potrebbe equiparare all'immanente "proprio io e alle sue voglie" di Benedetto XVI.

Papa Francesco denuncia il flagello cui è sottoposta la dignità umana, non in astratto, ma nella carne dolente dei poveri e degli esclusi: di chi è di troppo in un mondo europeo che respinge gli emigranti africani a Lampedusa; degli emarginati delle grandi città emergenti che si ammassano in miserande baracche o in tuguri; delle vittime delle nuove forme di schiavitù, come la tratta delle persone, i bambini-soldato e la triste storia di quelli che sono preda delle grinfie della droga. Questo grido profetico risuona nelle orecchie del mondo e i corridoi sono percorsi dalle voci di un premio nobel mentre un fiume di riviste lo loda in prima pagina. Tuttavia, l'idolatria del mondo materiale permane intatta, perché profonde radici la mantengono in piedi.

In una intervista concessa a Henrique Cymerman, papa Francesco si dilungava con chiarezza sulle conseguenze sociali di queste propensioni idolatriche: "Siamo caduti in un peccato di idolatria, di idolatria del denaro. L'economia è mossa dalla brama di avere di più e, paradossalmente, si alimenta una cultura dello scarto. Si scartano i giovani quando si limita la natalità. Si scartano anche gli anziani perché non servono più, non producono, sono una classe passiva... Scartando i ragazzi e gli anziani si scarta il futuro di un popolo perché i ragazzi vanno con forza in avanti e perché gli anziani ci danno la saggezza, hanno la memoria del popolo e devono passarla ai giovani. [...] Ma scartiamo un'intera generazione per mantenere un sistema economico che non regge più, un sistema che per sopravvivere deve fare la guerra, come hanno fatto sempre i grandi imperi. [...] Questo pensiero unico ci toglie la ricchezza della diversità del pensiero e pertanto la ricchezza di un dialogo tra persone".

Le persone sono l'alimento del sistema. L'immagine ricorda il film "Matrix", nel quale gli esseri umani sono utilizzati come pile di una grande macchina elettrica che ha raggiunto l'autocoscienza. Molti di essi vivono in un mondo illusorio, che si rivela una confortevole prigione. Max Weber, all'inizio del XX secolo, chiamò gabbia di ferro ogni mercato privo di valori.

Le due facce di una stessa realtà

Queste due dittature denunciate dai pontefici sono, allo stesso tempo, i diversi aspetti di una medesima realtà. In un importante discorso pronunciato nelle prime settimane del suo pontificato, di fronte al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, papa Francesco fissò questo nesso tra la sua preoccupazione per la povertà e il magistero di Benedetto XVI sulla verità. Prima di tutto affermava: "Come sapete, ci sono vari motivi per cui ho scelto il mio nome pensando a Francesco di Assisi, una personalità che è ben nota al di là dei confini dell'Italia e dell'Europa e anche tra coloro che non professano la fede cattolica. Uno dei primi è l'amore che Francesco aveva per i poveri. Quanti poveri ci sono ancora nel mondo! E quanta sofferenza incontrano queste persone! Sull'esempio di Francesco d'Assisi, la Chiesa ha sempre cercato di avere cura, di custodire, in ogni angolo della Terra, chi soffre per l'indigenza e penso che in molti dei vostri Paesi possiate constatare la generosa opera di quei cristiani che si adoperano per aiutare i malati, gli orfani, i senzatetto e tutti coloro che sono emarginati, e che così lavorano per edificare società più umane e più giuste".

Dopo aver descritto ancora una volta il problema della cultura dello scarto, nel brano che segue, costruisce il ponte col precedente pontificato: "Ma c'è anche un'altra povertà! È la povertà spirituale dei nostri giorni, che riguarda gravemente anche i Paesi considerati più ricchi. È quanto il mio Predecessore, il caro e venerato Benedetto XVI, chiama la "dittatura del relativismo", che lascia ognuno come misura di se stesso e mette in pericolo la convivenza tra gli uomini. E così giungo ad una seconda ragione del mio nome. Francesco d'Assisi ci dice: Lavorate per edificare la pace! Ma non vi è vera pace senza verità! Non vi può essere pace vera se ciascuno è la misura di se stesso, se ciascuno può rivendicare sempre e solo il proprio diritto, senza curarsi allo stesso tempo del bene degli altri, di tutti, a partire dalla natura che accomuna ogni essere umano su questa terra".

Non c'è pace, non c'è progresso umano possibile, se le persone non si preoccupano del bene degli altri. Giovanni Paolo II lo sintetizzò nella storica frase "la pace è opera della solidarietà", in continuità con i suoi predecessori Pio XII e Paolo VI che, uno dopo l'altro, avevano annunciato "la pace è opera della giustizia" e "lo sviluppo è il nuovo nome della pace". Il ragionamento collegato del magistero pontificio si fonda su un principio basilare della dignità umana: soltanto con la donazione di se stesso agli altri si può costruire un mondo nel quale abbia partita vinta la fraternità.

Per questo la società di oggi, per poter superare la crisi di povertà e di valori che stiamo vivendo da alcuni anni, deve riscoprire la propria verità più profonda: il rispetto assoluto dei diritti umani di ogni persona, che è unica e irripetibile. Se viene meno questa base, alcuni strumentalizzeranno gli altri per i propri fini personali e gli esseri umani saranno usati invece che rispettati, saranno trattati come cose che si possono gettar via quando non servono più.

Secondo me, Papa Francesco si riferisce continuamente al relativismo mediante una proposta che va oltre e che consiste nel denunciare la conseguenza diretta del relativismo: l'influenza dei potenti, la cultura dello scarto e dell'indifferenza, la burocratizzazione della fede. A tutto ciò propone di contrapporre una cultura dell'incontro e dell'impegno.

Nella Evangelii Gaudium constata "un progressivo aumento del relativismo, che dà luogo a un disorientamento generalizzato". E più avanti chiarisce: "Questo relativismo pratico consiste nell'agire come se Dio non esistesse, decidere come se i poveri non esistessero, sognare come se gli altri non esistessero, lavorare come se quanti non hanno ricevuto l'annuncio non esistessero". Ciò vuol dire praticare un "mangia e bevi, spàssatela", frutto oscuro di una autonomia illusa che non si assume nessuna responsabilità nei confronti degli altri. Di fronte a questo, nasce con Martin Buber quel grande principio cainesco dell'etica che ci ricorda che siamo i "guardiani dei nostri fratelli", che esistono dei legami di fratellanza che ci uniscono agli altri, che non siamo individualità isolate che possono pensare solo al "proprio io e alle sue voglie". Siamo chiamati alla carità per costruire il bene comune, alla caritas in veritate – una enciclica sociale di Benedetto XVI –, alla carità nella verità.

Riassumendo, si potrebbe sostenere che Papa Benedetto afferma che senza un autentico fondamento, il mondo rimane senza istanze di appello e nelle mani dei potenti: i poveri e i deboli trovano sbarrate le porte della dignità, non esistono valori che convalidino i loro reclami.

Papa Francesco, nel suo tipico linguaggio, denuncia con particolare forza che il vero nome del relativismo è la cultura dello scarto e la vittoria del potere e del denaro sulla dignità, su ciò che è autenticamente umano, sulla verità. Sono momenti diversi di uno stesso processo, due facce di una stessa realtà, che siamo chiamati a superare con l'amore e la donazione, il perdono, la generosità e la gratitudine.

Un aneddoto

Per terminare mi piacerebbe raccontare un aneddoto. Più o meno un mese fa ho avuto l'immensa gioia di far visita al Papa a Santa Marta. Mi ha ricevuto come un padre riceve il figlio. Incoraggiato dalla confidenza che regnava in quell'affettuoso incontro, ho osato chiedergli di confermarmi un concetto che, insieme ad altri intellettuali argentini, stiamo elaborando e che si può sintetizzare così: la cultura dello scarto è una conseguenza della dittatura del relativismo. Papa Francesco, con un sorriso e con una certa enfasi, mi ha risposto in questi termini (evidentemente, non sono le parole testuali): "È così. Se non c'è verità, prevale in ognuno l'interesse personale, che produce la nefasta conseguenza di scartare i più deboli". E ha fatto ancora una volta riferimento alla disoccupazione giovanile in Europa, che tanto lo preoccupa.

Si dice che qualche volta il Papa emerito Benedetto abbia affermato che egli parlava alla testa e Papa Francesco parla al cuore. Uniamo entrambi in una lettura di continuità, perché è terribile una persona senza testa, ma lo è ancor più una senza cuore.