Gli interventi di Papa Francesco nella Settimana Santa 2014

​Riportiamo le omelie e i vari interventi di Papa Francesco durante le cerimonie della Settimana Santa.

BENEDIZIONE URBI ET ORBI

San Pietro, 20 aprile 2014

Cari fratelli e sorelle, buona e santa Pasqua!

Risuona nella Chiesa sparsa in tutto il mondo l’annuncio dell’angelo alle donne: «Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. E’ risorto … venite, guardate il luogo dove era stato deposto» (Mt 28,5-6).

Questo è il culmine del Vangelo, è la Buona Notizia per eccellenza: Gesù, il crocifisso, è risorto! Questo avvenimento è alla base della nostra fede e della nostra speranza: se Cristo non fosse risorto, il Cristianesimo perderebbe il suo valore; tutta la missione della Chiesa esaurirebbe la sua spinta, perché è da lì che è partita e che sempre riparte. Il messaggio che i cristiani portano al mondo è questo: Gesù, l’Amore incarnato, è morto sulla croce per i nostri peccati, ma Dio Padre lo ha risuscitato e lo ha fatto Signore della vita e della morte. In Gesù, l’Amore ha vinto sull’odio, la misericordia sul peccato, il bene sul male, la verità sulla menzogna, la vita sulla morte.

Per questo noi diciamo a tutti: «Venite e vedete!». In ogni situazione umana, segnata dalla fragilità, dal peccato e dalla morte, la Buona Notizia non è soltanto una parola, ma è una testimonianza di amore gratuito e fedele: è uscire da sé per andare incontro all’altro, è stare vicino a chi è ferito dalla vita, è condividere con chi manca del necessario, è rimanere accanto a chi è malato o vecchio o escluso… “Venite e vedete!”: l’Amore è più forte, l’Amore dona vita, l’Amore fa fiorire la speranza nel deserto.

Con questa gioiosa certezza nel cuore, noi oggi ci rivolgiamo a te, Signore Risorto!

Aiutaci a cercarti affinché tutti possiamo incontrarti, sapere che abbiamo un Padre e non ci sentiamo orfani; che possiamo amarti e adorarti.

Aiutaci a sconfiggere la piaga della fame, aggravata dai conflitti e dagli immensi sprechi di cui spesso siamo complici.

Rendici capaci di proteggere gli indifesi, soprattutto i bambini, le donne e gli anziani, a volte fatti oggetto di sfruttamento e di abbandono.

Fa’ che possiamo curare i fratelli colpiti dall’epidemia di ebola in Guinea Conakry, Sierra Leone e Liberia, e quelli affetti da tante altre malattie, che si diffondono anche per l’incuria e la povertà estrema.

Consola quanti oggi non possono celebrare la Pasqua con i propri cari perché strappati ingiustamente ai loro affetti, come le numerose persone, sacerdoti e laici, che in diverse parti del mondo sono state sequestrate.

Conforta coloro che hanno lasciato le proprie terre per migrare in luoghi dove poter sperare in un futuro migliore, vivere la propria vita con dignità e, non di rado, professare liberamente la propria fede.

Ti preghiamo, Gesù glorioso, fa’ cessare ogni guerra, ogni ostilità grande o piccola, antica o recente!

Ti supplichiamo, in particolare, per la Siria, l’amata Siria, perché quanti soffrono le conseguenze del conflitto possano ricevere i necessari aiuti umanitari e le parti in causa non usino più la forza per seminare morte, soprattutto contro la popolazione inerme, ma abbiano l’audacia di negoziare la pace, ormai da troppo tempo attesa!

Gesù glorioso, ti domandiamo di confortare le vittime delle violenze fratricide in Iraq e di sostenere le speranze suscitate dalla ripresa dei negoziati tra Israeliani e Palestinesi.

Ti imploriamo che venga posta fine agli scontri nella Repubblica Centroafricana e che si fermino gli efferati attentati terroristici in alcune zone della Nigeria e le violenze in Sud Sudan.

Ti chiediamo che gli animi si volgano alla riconciliazione e alla concordia fraterna in Venezuela.

Per la tua Risurrezione, che quest’anno celebriamo insieme con le Chiese che seguono il calendario giuliano, ti preghiamo di illuminare e ispirare iniziative di pacificazione in Ucraina, perché tutte le parti interessate, sostenute dalla Comunità internazionale, intraprendano ogni sforzo per impedire la violenza e costruire, in uno spirito di unità e di dialogo, il futuro del Paese. Che loro come fratelli possano oggi cantare Хрhctос Воскрес.

Per tutti i popoli della Terra ti preghiamo, Signore: tu che hai vinto la morte, donaci la tua vita, donaci la tua pace! Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua!

SALUTO

Cari fratelli e sorelle,

rinnovo il mio augurio di Buona Pasqua a tutti voi giunti in questa Piazza da ogni parte del mondo. Estendo gli auguri pasquali a quanti, da vari Paesi, sono collegati attraverso i mezzi di comunicazione sociale. Portate nelle vostre famiglie e nelle vostre comunità il lieto annuncio che Cristo nostra pace e nostra speranza è risorto!

Grazie per la vostra presenza, per la vostra preghiera e per la vostra testimonianza di fede. Un pensiero particolare e riconoscente per il dono dei bellissimi fiori, che provengono dai Paesi Bassi. Buona Pasqua a tutti!

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VEGLIA PASQUALE

Basilica di San Pietro, 19 aprile 2014

Il Vangelo della risurrezione di Gesù Cristo incomincia con il cammino delle donne verso il sepolcro, all’alba del giorno dopo il sabato. Esse vanno alla tomba, per onorare il corpo del Signore, ma la trovano aperta e vuota. Un angelo potente dice loro: «Voi non abbiate paura!» (Mt 28,5), e ordina di andare a portare la notizia ai discepoli: «È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea» (v. 7). Le donne corrono via subito, e lungo la strada Gesù stesso si fa loro incontro e dice: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno» (v. 10). “Non abbiate paura”, “non temete”: è una voce che incoraggia ad aprire il cuore per ricevere questo annuncio.

Dopo la morte del Maestro, i discepoli si erano dispersi; la loro fede si era infranta, tutto sembrava finito, crollate le certezze, spente le speranze. Ma ora, quell’annuncio delle donne, benché incredibile, giungeva come un raggio di luce nel buio. La notizia si sparge: Gesù è risorto, come aveva predetto… E anche quel comando di andare in Galilea; per due volte le donne l’avevano sentito, prima dall’angelo, poi da Gesù stesso: «Che vadano in Galilea, là mi vedranno». “Non temete” e “andate in Galilea”.

La Galilea è il luogo della prima chiamata, dove tutto era iniziato! Tornare là, tornare al luogo della prima chiamata. Sulla riva del lago Gesù era passato, mentre i pescatori stavano sistemando le reti. Li aveva chiamati, e loro avevano lasciato tutto e lo avevano seguito (cfr Mt 4,18-22).

Ritornare in Galilea vuol dire rileggere tutto a partire dalla croce e dalla vittoria; senza paura, “non temete”. Rileggere tutto – la predicazione, i miracoli, la nuova comunità, gli entusiasmi e le defezioni, fino al tradimento – rileggere tutto a partire dalla fine, che è un nuovo inizio, da questo supremo atto d’amore.

Anche per ognuno di noi c’è una “Galilea” all’origine del cammino con Gesù. “Andare in Galilea” significa qualcosa di bello, significa per noi riscoprire il nostro Battesimo come sorgente viva, attingere energia nuova alla radice della nostra fede e della nostra esperienza cristiana. Tornare in Galilea significa anzitutto tornare lì, a quel punto incandescente in cui la Grazia di Dio mi ha toccato all’inizio del cammino. E’ da quella scintilla che posso accendere il fuoco per l’oggi, per ogni giorno, e portare calore e luce ai miei fratelli e alle mie sorelle. Da quella scintilla si accende una gioia umile, una gioia che non offende il dolore e la disperazione, una gioia buona e mite.

Nella vita del cristiano, dopo il Battesimo, c’è anche un’altra “Galilea”, una “Galilea” più esistenziale: l’esperienza dell’incontro personale con Gesù Cristo, che mi ha chiamato a seguirlo e a partecipare alla sua missione. In questo senso, tornare in Galilea significa custodire nel cuore la memoria viva di questa chiamata, quando Gesù è passato sulla mia strada, mi ha guardato con misericordia, mi ha chiesto di seguirlo; tornare in Galilea significa recuperare la memoria di quel momento in cui i suoi occhi si sono incrociati con i miei, il momento in cui mi ha fatto sentire che mi amava.

Oggi, in questa notte, ognuno di noi può domandarsi: qual è la mia Galilea?Si tratta di fare memoria, andare indietro col ricordo.Dov’è la mia Galilea? La ricordo? L’ho dimenticata? Cercala e la troverai! Lì ti aspetta il Signore. Sono andato per strade e sentieri che me l’hanno fatta dimenticare. Signore, aiutami: dimmi qual è la mia Galilea; sai, io voglio ritornare là per incontrarti e lasciarmi abbracciare dalla tua misericordia. Non abbiate paura, non temete, tornate in Galilea!

Il Vangelo è chiaro: bisogna ritornare là, per vedere Gesù risorto, e diventare testimoni della sua risurrezione. Non è un ritorno indietro, non è una nostalgia. E’ ritornare al primo amore, per ricevere il fuoco che Gesù ha acceso nel mondo, e portarlo a tutti, sino ai confini della terra. Tornare in Galilea senza paura.

«Galilea delle genti» (Mt 4,15; Is 8,23): orizzonte del Risorto, orizzonte della Chiesa; desiderio intenso di incontro… Mettiamoci in cammino!

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VIA CRUCIS

Colosseo, 18 aprile 2014

«Il male non avrà l'ultima parola, ma l'amore, la misericordia e il perdono». C'è un messaggio di riscatto e di speranza nella Via Crucis che venerdì sera, per la seconda volta nel suo pontificato, papa Francesco ha presieduto nello scenario del Colosseo. Dinanzi a una folla di oltre 40 mila persone, il tradizionale rito del Venerdì Santo ha rivissuto il calvario e la morte di Gesù attraverso i tanti drammi sociali del mondo di oggi - le violenze, la crisi economica, la disoccupazione - nelle meditazioni composte per l'occasione dall'arcivescovo di Campobasso Giancarlo Maria Bregantini. Ma nel suo breve intervento finale - che fino a questa sera non era previsto - Bergoglio ha voluto indicare la via della fiducia e della redenzione, anche per chi soffre.

«Tutti insieme - ha detto - ricordiamo i malati, ricordiamo tutte le persone abbandonate sotto il peso della croce, affinché trovino sotto il peso della croce la forza della speranza, la forza della resurrezione e dell'amore di Dio».

E per il Papa, la crocifissione raccoglie in sé «tutte le ingiustizie perpetrate da ogni Caino», «tutta l'amarezza del tradimento di Giuda e di Pietro, tutta la vanità dei prepotenti, tutta l'arroganza dei falsi amici», ha detto nel breve discorso finale. «Era una croce pesante come la notte delle persone abbandonate - ha affermato - pesante come la morte delle persone care, pesante perché riassume tutta la bruttura del male». Tuttavia, ha proseguito, «è anche una croce gloriosa come l'alba di una notte lunga, perché raffigura tutto l'amore di Dio, che è più grande delle nostre iniquità e dei nostri tradimenti».
Nella croce, ha aggiunto il Papa, «vediamo la mostruosità dell'uomo quando si lascia guidare dal male. Ma vediamo anche l'immensità dell'amore di Dio che non ci tratta secondo i nostri peccati ma secondo la sua misericordia». «Di fronte alla croce di Gesù - ha detto ancora il Pontefice - vediamo, fino a toccare con le mani, quanto siamo amati eternamente da Dio. Di fronte alla croce si sentiamo suoi figli». (Il Messaggero.it)

SANTA MESSA IN COENA DOMINI

Centro per disabili “Santa Maria della Provvidenza”, 17 Aprile 2014

Papa Francesco ha scelto il Centro per disabili “Santa Maria della Provvidenza”, della Fondazione Don Carlo Gnocchi, per celebrare la messa in Coena Domini di questo Giovedì Santo, in cui si commemora la lavanda dei piedi di Gesù ai dodici apostoli. Già da cardinale, Bergoglio aveva l’abitudine di celebrare questo rito in un carcere, in un ospedale o in un centro di accoglienza per poveri o per emarginati.

Francesco è stato ricevuto con grande entusiasmo all’entrata della Chiesa da una moltitudine di fedeli, con i quali si è intrattenuto per benedirli e scambiare qualche parola. Una volta dentro, il Papa ha salutato le persone che si trovavano ad ambo i lati della navata centrale. La celebrazione è stata animata da chitarre, strumenti a percussione e dal coro, nel quale cantavano alcuni pazienti del Centro.

In una breve e improvvisata omelia, il Santo Padre ha parlato del gesto di Gesù di lavare i piedi come un’eredità a noi trasmessa. Francesco ha ricordato che “Lui è Dio e si è fatto servo, servitore nostro e questa è l’eredità” e ha spiegato che “anche voi dovete essere servitori nell’amore”.

Il Papa ha ricordato che Gesù compie questo gesto di lavare i piedi, “che è simbolico, lo fanno gli schiavi, i servi ai commensali”. Gesù, ha aggiunto, “compie un lavoro, un servizio da schiavo, da servo. Questo lo lascia come eredità tra noi”. Per questo, ha osservato, “dobbiamo essere servitori gli uni degli altri”.

Francesco ha aggiunto che, in questo giorno, in cui la Chiesa commemora l’Ultima Cena, “fa anche, nella cerimonia, questo gesto di lavare i piedi, che ci ricorda che noi dobbiamo essere servi gli uni degli altri".

In conclusione, il Santo Padre ha spiegato che avrebbe poi fatto quel gesto ma ha invitato tutti a pensare nel proprio cuore agli altri, “all’amore che Gesù ci dice dobbiamo avere per gli altri e pensare anche a come possiamo servire meglio le altre persone, perché così ha voluto Gesù per noi”.

Dopo queste parole, il Santo Padre si è avvicinato a dodici ospiti disabili del Centro. Inginocchiatosi, con dolcezza e tenerezza, Francesco ha versato acqua sui piedi di ciascuno di loro, li ha asciugati e li ha baciati.

I dodici ospiti del Centro della Fondazione Don Gnocchi, tutti portatori di disabilità, alcuni momentanea, altri cronica, hanno tra i 16 e gli 86 anni. Tra questi ultimi ci sono tre stranieri – uno di religione musulmana – il resto sono di nazionalità italiana.

Alla fine dell’eucaristia, il Santo Padre ha portato le ostie consacrate al tabernacolo e si è fermato lì in preghiera per alcuni istanti. (ZENIT.ORG)

SANTA MESSA DEL CRISMA

Basilica Vaticana, giovedì Santo, 17 aprile 2014
Cari fratelli nel sacerdozio! Nell’Oggi del Giovedì Santo, in cui Cristo ci amò fino all’estremo (cfr Gv 13,1), facciamo memoria del giorno felice dell’Istituzione del sacerdozio e di quello della nostra Ordinazione sacerdotale. Il Signore ci ha unto in Cristo con olio di gioia e questa unzione ci invita a ricevere e a farci carico di questo grande dono: la gioia, la letizia sacerdotale. La gioia del sacerdote è un bene prezioso non solo per lui ma anche per tutto il popolo fedele di Dio: quel popolo fedele in mezzo al quale è chiamato il sacerdote per essere unto e al quale è inviato per ungere.

Unti con olio di gioia per ungere con olio di gioia. La gioia sacerdotale ha la sua fonte nell’Amore del Padre, e il Signore desidera che la gioia di questo Amore «sia in noi» e «sia piena» (Gv 15,11). A me piace pensare la gioia contemplando la Madonna: Maria, la «madre del Vangelo vivente, è sorgente di gioia per i piccoli» (Esort. ap.Evangelii gaudium, 288), e credo che non esageriamo se diciamo che il sacerdote è una persona molto piccola: l’incommensurabile grandezza del dono che ci è dato per il ministero ci relega tra i più piccoli degli uomini. Il sacerdote è il più povero degli uomini se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà, è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico, il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come Pietro, il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge. Nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze; perciò la nostra preghiera di difesa contro ogni insidia del Maligno è la preghiera di nostra Madre: sono sacerdote perché Lui ha guardato con bontà la mia piccolezza (cfr Lc 1,48). E a partire da tale piccolezza accogliamo la nostra gioia. Gioia nella nostra piccolezza!

Trovo tre caratteristiche significative nella nostra gioia sacerdotale: è una gioia che ci unge (non che ci rende untuosi, sontuosi e presuntuosi), è una gioia incorruttibile ed è una gioia missionaria che si irradia a tutti e attira tutti, cominciando alla rovescia: dai più lontani.

Una gioia che ci unge. Vale a dire: è penetrata nell’intimo del nostro cuore, lo ha configurato e fortificato sacramentalmente. I segni della liturgia dell’ordinazione ci parlano del desiderio materno che ha la Chiesa di trasmettere e comunicare tutto ciò che il Signore ci ha dato: l’imposizione delle mani, l’unzione con il santo Crisma, il rivestire con i paramenti sacri, la partecipazione immediata alla prima Consacrazione… La grazia ci colma e si effonde integra, abbondante e piena in ciascun sacerdote. Unti fino alle ossa… e la nostra gioia, che sgorga da dentro, è l’eco di questa unzione.

Una gioia incorruttibile. L’integrità del Dono, alla quale nessuno può togliere né aggiungere nulla, è fonte incessante di gioia: una gioia incorruttibile, che il Signore ha promesso che nessuno potrà togliercela (cfr Gv 16,22). Può essere addormentata o soffocata dal peccato o dalle preoccupazioni della vita ma, nel profondo, rimane intatta come la brace di un ceppo bruciato sotto le ceneri, e sempre può essere rinnovata. La raccomandazione di Paolo a Timoteo rimane sempre attuale: Ti ricordo di ravvivare il fuoco del dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani (cfr 2 Tm 1,6).

Una gioia missionaria. Questa terza caratteristica la voglio condividere e sottolineare in modo speciale: la gioia del sacerdote è posta in intima relazione con il santo popolo fedele di Dio perché si tratta di una gioia eminentemente missionaria. L’unzione è in ordine a ungere il santo popolo fedele di Dio: per battezzare e confermare, per curare e consacrare, per benedire, per consolare ed evangelizzare.

E poiché è una gioia che fluisce solo quando il pastore sta in mezzo al suo gregge (anche nel silenzio della preghiera, il pastore che adora il Padre è in mezzo alle sue pecorelle) e per questo è una “gioia custodita” da questo stesso gregge. Anche nei momenti di tristezza, in cui tutto sembra oscurarsi e la vertigine dell’isolamento ci seduce, quei momenti apatici e noiosi che a volte ci colgono nella vita sacerdotale (e attraverso i quali anch’io sono passato), persino in questi momenti il popolo di Dio è capace di custodire la gioia, è capace di proteggerti, di abbracciarti, di aiutarti ad aprire il cuore e ritrovare una gioia rinnovata.

“Gioia custodita” dal gregge e custodita anche da tre sorelle che la circondano, la proteggono, la difendono: sorella povertà, sorella fedeltà e sorella obbedienza.

La gioia del sacerdote è una gioia che ha come sorella la povertà. Il sacerdote è povero di gioia meramente umana: ha rinunciato a tanto! E poiché è povero, lui, che dà tante cose agli altri, la sua gioia deve chiederla al Signore e al popolo fedele di Dio. Non deve procurarsela da sé. Sappiamo che il nostro popolo è generosissimo nel ringraziare i sacerdoti per i minimi gesti di benedizione e in modo speciale per i Sacramenti. Molti, parlando della crisi di identità sacerdotale, non tengono conto che l’identità presuppone appartenenza. Non c’è identità – e pertanto gioia di vivere – senza appartenenza attiva e impegnata al popolo fedele di Dio (cfr Esort. ap.Evangelii gaudium, 268). Il sacerdote che pretende di trovare l’identità sacerdotale indagando introspettivamente nella propria interiorità forse non trova altro che segnali che dicono “uscita”: esci da te stesso, esci in cerca di Dio nell’adorazione, esci e dai al tuo popolo ciò che ti è stato affidato, e il tuo popolo avrà cura di farti sentire e gustare chi sei, come ti chiami, qual è la tua identità e ti farà gioire con il cento per uno che il Signore ha promesso ai suoi servi. Se non esci da te stesso, l’olio diventa rancido e l’unzione non può essere feconda. Uscire da sé stessi richiede spogliarsi di sé, comporta povertà.

La gioia sacerdotale è una gioia che ha come sorella la fedeltà. Non tanto nel senso che saremmo tutti “immacolati” (magari con la grazia di Dio lo fossimo!) perché siamo peccatori, ma piuttosto nel senso di una sempre nuova fedeltà all’unica Sposa, la Chiesa. Qui è la chiave della fecondità. I figli spirituali che il Signore dà ad ogni sacerdote, quelli che ha battezzato, le famiglie che ha benedetto e aiutato a camminare, i malati che sostiene, i giovani con cui condivide la catechesi e la formazione, i poveri che soccorre… sono questa “Sposa” che egli è felice di trattare come prediletta e unica amata e di esserle sempre nuovamente fedele. E’ la Chiesa viva, con nome e cognome, di cui il sacerdote si prende cura nella sua parrocchia o nella missione affidatagli, è essa che gli dà gioia quando le è fedele, quando fa tutto ciò che deve fare e lascia tutto ciò che deve lasciare pur di rimanere in mezzo alle pecore che il Signore gli ha affidato: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,16.17).

La gioia sacerdotale è una gioia che ha come sorella l’obbedienza. Obbedienza alla Chiesa nella Gerarchia che ci dà, per così dire, non solo l’ambito più esterno dell’obbedienza: la parrocchia alla quale sono inviato, le facoltà del ministero, quell’incarico particolare… bensì anche l’unione con Dio Padre, dal quale deriva ogni paternità. Ma anche l’obbedienza alla Chiesa nel servizio: disponibilità e prontezza per servire tutti, sempre e nel modo migliore, a immagine di “Nostra Signora della prontezza” (cfr Lc 1,39: meta spoudes), che accorre a servire sua cugina e sta attenta alla cucina di Cana, dove manca il vino. La disponibilità del sacerdote fa della Chiesa la Casa dalle porte aperte, rifugio per i peccatori, focolare per quanti vivono per strada, casa di cura per i malati, campeggio per i giovani, aula di catechesi per i piccoli della prima Comunione… Dove il popolo di Dio ha un desiderio o una necessità, là c’è il sacerdote che sa ascoltare (ob-audire) e sente un mandato amoroso di Cristo che lo manda a soccorrere con misericordia quella necessità o a sostenere quei buoni desideri con carità creativa.

Colui che è chiamato sappia che esiste in questo mondo una gioia genuina e piena: quella di essere preso dal popolo che uno ama per essere inviato ad esso come dispensatore dei doni e delle consolazioni di Gesù, l’unico Buon Pastore che, pieno di profonda compassione per tutti i piccoli e gli esclusi di questa terra, affaticati e oppressi come pecore senza pastore, ha voluto associare molti al suo ministero per rimanere e operare Lui stesso, nella persona dei suoi sacerdoti, per il bene del suo popolo.

In questo Giovedì Santo chiedo al Signore Gesù che faccia scoprire a molti giovani quell’ardore del cuore che fa ardere la gioia appena uno ha la felice audacia di rispondere con prontezza alla sua chiamata.

In questo Giovedì Santo chiedo al Signore Gesù che conservi il brillare gioioso negli occhi dei nuovi ordinati, che partono per “mangiarsi” il mondo, per consumarsi in mezzo al popolo fedele di Dio, che gioiscono preparando la prima omelia, la prima Messa, il primo Battesimo, la prima Confessione… E’ la gioia di poter condividere – meravigliati – per la prima volta come unti, il tesoro del Vangelo e sentire che il popolo fedele ti torna ad ungere in un’altra maniera: con le loro richieste, porgendoti il capo perché tu li benedica, stringendoti le mani, avvicinandoti ai loro figli, chiedendo per i loro malati… Conserva Signore nei tuoi giovani sacerdoti la gioia della partenza, di fare ogni cosa come nuova, la gioia di consumare la vita per te.

In questo Giovedì sacerdotale chiedo al Signore Gesù di confermare la gioia sacerdotale di quelli che hanno parecchi anni di ministero. Quella gioia che, senza scomparire dagli occhi, si posa sulle spalle di quanti sopportano il peso del ministero, quei preti che già hanno tastato il polso al lavoro, raccolgono le loro forze e si riarmano: “cambiano aria”, come dicono gli sportivi. Conserva Signore la profondità e la saggia maturità della gioia dei preti adulti. Sappiano pregare come Neemia: la gioia del Signore è la mia forza (cfr Ne 8,10).

Infine, in questo Giovedì sacerdotale, chiedo al Signore Gesù che risplenda la gioia dei sacerdoti anziani, sani o malati. E’ la gioia della Croce, che promana dalla consapevolezza di avere un tesoro incorruttibile in un vaso di creta che si va disfacendo. Sappiano stare bene in qualunque posto, sentendo nella fugacità del tempo il gusto dell’eterno (Guardini). Sentano, Signore, la gioia di passare la fiaccola, la gioia di veder crescere i figli dei figli e di salutare, sorridendo e con mitezza, le promesse, in quella speranza che non delude.


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