L’avventura di ascoltare gli altri

Un ricordo, scritto da don Carlo De Marchi, di Umberto Farri, uno dei primi fedeli italiani dell'Opus Dei. In suo ricordo sarà celebrata una Messa a S. Maria della Pace, a Roma, nel decimo anniversario della sua morte.

Umberto Farri con san Josemaría Escrivá.

(Tutte le informazioni sulla Messa di giovedì 13 ottobre per il decimo anniversario della scomparsa di Umberto)

Dieci anni fa, il 13 ottobre 2006, Umberto Farri concludeva la sua avventura terrena. Nel suo caso questa espressione non è retorica, perché la sua vita è stata davvero una grande avventura. Umberto era solito ripetere che l’esperienza vissuta come direttore della Residenza RUI di Roma, agli inizi degli anni ’60, era stata imprescindibile come primo contatto con il Sud del mondo, con decine di giovani venuti a studiare in Italia a seguito dell’indipendenza di molti Stati dell’Africa Sub-Sahariana.

Nel 1966, insieme ad alcuni amici e colleghi, Umberto diede vita all’Istituto per la Cooperazione Universitaria, che sarebbe diventata una delle prime ONG di sviluppo attive in Italia. I primi progetti si avvalsero della possibilità di inviare volontari in servizio civile all’estero, ed ebbero come destinazione il Perù. “L’Università di Piura non sarebbe quello che è, senza il contributo dei progetti dell’ICU e senza il cuore che Umberto seppe metterci”, afferma Antonio Mabres, per molti anni rettore dell’Università nata nel 1969 in una zona periferica del Perù.

Ho avuto la fortuna di lavorare accanto a Umberto per gli ultimi 10 anni della sua vita. “Umberto Farri ha influito decisivamente nella mia vita” – è il commento che ho sentito fare molte volte da tante persone diverse, grate e commosse. Umberto seguiva con particolare vicinanza i volontari e i collaboratori dell’ICU, mantenendo un rapporto di amicizia duraturo nel tempo.

“Dopo aver visto tanti giovani, quali consigli darebbe a un universitario?”, gli domandarono in un’intervista del 2003. “Imparare ad ascoltare – rispose Umberto – per conoscere meglio i nostri colleghi, i nostri amici. Solo così si può aprire un dialogo mostrando un vero interesse per il nostro interlocutore, che permetta di consolidare un rapporto e stabilire un'amicizia. San Josemaría Escrivá soleva sintetizzare così il livello del rapporto umano di vera amicizia: La vera carità, più che nel dare, consiste nel comprendere”. Umberto aveva conosciuto san Josemaría nel 1948, anno in cui aveva chiesto l’ammissione all’Opus Dei, che allora era presente a Roma da pochi anni.

Umberto Farri con san Josemaría Escrivá

Ricordo l’emozione e la gioia di Umberto quando, a settembre del 2005, assisteva alla collocazione di una statua di san Josemaría all’esterno della Basilica di S. Pietro, in una delle nicchie che accolgono i fondatori che vengono canonizzati. Avrà pensato, ne sono sicuro, all’incoraggiamento ricevuto da san Josemaría agli inizi dell’ICU. E alla fiducia affettuosa che aveva sentito fin dal primo momento da parte del fondatore dell’Opus Dei nei confronti suoi e degli altri giovani studenti italiani che l’avevano conosciuto. Tra parentesi, a me ha sempre incoraggiato molto sapere che Umberto aveva fatto due anni di Ingegneria al Politecnico di Milano prima di cambiare facoltà: sbagliare strada può non essere così grave, se non si drammatizza… Con la stessa fiducia, anni dopo san Josemaría scelse Umberto tra i suoi collaboratori, affidandogli il settore dell’educazione dei giovani.

Oltre che un grande ascoltatore, Umberto era uno straordinario narratore. Lo si ascoltava a lungo senza annoiarsi. Tuttavia, quando si trovava a parlare di qualche successo personale – cosa che di rado faceva di propria iniziativa – lo raccontava con una sorta di timidezza stupita. Di fatto avrebbe potuto fare sfoggio di una laurea honoris causa in Perù e varie onorificenza ricevute per esempio in Cina (era cittadino onorario di Canton), in Armenia, in Etiopia, in Italia, ma era evidente che non le prendeva sul serio. E invece un’arte in cui eccelleva era il racconto di aneddoti nei quali non faceva una bella figura, che narrava con un’autoironia davvero esilarante.

A volte, accanto a lui, di fronte a un progetto ancora in fase embrionale (un’intuizione, magari ancora un sogno), mi sono trovato a segnalare – col tono perentorio di un trentenne che spiega il mondo a un settantenne – ostacoli, problemi e difficoltà oggettive da superare… A un certo punto lui mi interrompeva dicendo: “D’accordo. Allora dimmi tu cosa si fa!”. È facile criticare. Non è facile impegnarsi, fare qualcosa di concreto per risolvere un problema, intorno a noi, oppure in Kenya, in Libano, in Cile. Umberto aveva il dono di concentrarsi su quanto di positivo si può fare, non su sterili lamentele. Cercare soluzioni pratiche. Si tratta di un ottimismo realista, fondato sulla convinzione che ci sia sempre qualcosa di buono che si può fare adesso.

“A lui non interessava tanto un risultato ideale quanto un metodo che di per sé, nell'immediata applicazione, era già un risultato”, ricorda Albert Ribera. Il metodo della cooperazione, lavoro fatto insieme tra persone che hanno in mente il bene comune, non semplicemente un compromesso tra alcuni obiettivi individuali. Cercando con tutto il cuore il bene comune Umberto ha saputo realizzare progetti con persone di religioni, razze e visioni diverse.

Capacità d’ascolto, ottimismo, dialogo, lavoro fatto insieme. Qualità che sembrano oggi più che mai necessarie. Il ricordo di Umberto Farri ce le ripropone come una meta raggiungibile.

Don Carlo De Marchi