Sette giorni alla Piccola Casa della Divina Provvidenza: troppo pochi per fratel Roberto, il capo della struttura. Solitamente, infatti, i volontari rimangono almeno per due settimane a servire i poveri del Cottolengo di Torino, ma fratel Roberto ha acconsentito ugualmente a farci fare questa esperienza. Abbiamo compreso solo durante lo svolgimento perché sarebbe stato necessario più tempo.
Le giornate di cura agli ospiti nella Piccola Casa sono state impegnative: erano quaranta anziani e centocinquanta persone abbandonate (con problemi mentali e fisici), i "buoni figli", come amava chiamarli il santo fondatore, Giuseppe Benedetto Cottolengo.
Dopo una lezione su come svolgere il nostro lavoro al meglio (aiutare gli ospiti che non riescono a muoversi, imboccarli, occuparsi della loro igiene personale, rispettando le norme igieniche), siamo stati assegnati alle case, per aiutare gli operatori socio-sanitari e per stare vicino agli ospiti. I turni di servizio duravano dalle 7.30 alle 12.45 e, nel pomeriggio, dalle 17 alle 19.30.
Anche gli ospiti lavoravano: secondo il pensiero del santo fondatore, infatti, lavorare dona dignità; non lavorare, invece, vuol dire non servire a niente. E questo logora chiunque. Tutti gli ospiti fanno quello che possono per contribuire anche economicamente alle necessità della struttura. Un esempio è il lavoro di assemblaggio: una famosa ditta torinese, infatti, li incarica ormai da anni del montaggio di giocattoli e del loro controllo qualità (in cambio di un compenso). Chi sa fare la maglia o l'uncinetto fabbrica sciarpe, berretti, maglioni da vendere al mercatino di Natale; anche chi riesce a fare un po' meno aiuta come può. D’altra parte, la moneta con cui gli ospiti hanno ripagato noi è quella del loro affetto sovrabbondante e della loro semplicità.
Andare via è stata la parte più difficile: «Quando torni?», «Ti ricordi che siamo qui ad aspettarti?», «Scrivimi».
In definitiva, sette giorni erano davvero troppo pochi. Sono stati, tuttavia, ugualmente importanti: infatti, siamo partiti in sei e, al ritorno, eravamo altri sei, diversi da prima.
Alessandro Cavedagna