«Veder sorridere un bambino che non parla è un grande successo»

La prima unità di cure palliative pediatriche di Spagna, della Fondazione Vianorte-Laguna di Madrid, offre nuove terapie e cure ai bambini e sostiene le famiglie.

La prima unità di cure palliative pediatriche di Spagna, della Fondazione Vianorte-Laguna di Madrid, offre nuove terapie e cure ai bambini e sostiene le famiglie.

Amir è nato come «un bambino normale». Questo è ciò che hanno detto a Fatima e a Hicham, due giovani marocchini che, non ancora trentenni, avevano già tre figli. Erano arrivati in Spagna nel 2007, perché nel loro paese d’origine Amir non avrebbe potuto avere niente di «normale», né certe cure palliative di cui ha bisogno, né una vita degna di questo nome. Ora i due giovani coniugi confessano senza arrossire che non vogliono ritornarvi; là la vita di Amir – ne sono certi – sarebbe «impossibile».

Pochi mesi dopo la nascita, si capiva già che Amir aveva difficoltà respiratorie; secerneva in continuazione una quantità eccessiva di muco, i suoi muscoli erano rigidi, il suo corpo era teso come una tavola, coricato com’era su uno dei dieci letti dell’unica unità di cure palliative pediatriche diurne esistente in Spagna. Questa unità, che ha regalato ad Amir sospiri, movimenti e aliti di vita, è situata nella zona di Laguna a Madrid. L’ospedale della Fondazione Vianorte-Laguna ha in cura più di un centinaio di pazienti che hanno malattie in uno stadio avanzato; due anni fa ha inaugurato questo piccolo reparto riservato ai bambini. «Sono pazienti che stanno per andarsene», ammettono i medici.

Il lavoro della musicoterapeuta María Martínez-Gil, dell’infermiera Marina Buendía e di una squadra eccezionale formato da un pediatra, alcuni terapisti, un medico, un ausiliare, un’assistente sociale e uno psicologo, tiene conto che questi bambini hanno malattie rare, sconosciute come quella di Amir, e che alla fine moriranno. «Abbiamo avuto casi di pazienti che sono arrivati a 21 anni, ma non accade spesso; di solito vivono pochi anni», dice Marina, che si aggrappa alla fede come a uno strumento di lavoro in più. Grazie ad essa, non concepisce il decesso di questi bambini come un percorso di dolore, ma si sforza ogni giorno di offrire a ognuno di loro un transito più sopportabile.

È d’accordo con Maria, la quale ha imparato un canto musulmano per stimolare il bambino marocchino. «Salam Amir», canta con il tono giusto di un esperto soprano, mentre fa scivolare uno strumento tra le mani del piccolo di 3 anni, mettendogli le corde della sua chitarra sulla pancia. Così riesce ad arrivare fin dove la medicina e la parola non arrivano. «Ad alcuni di questi bambini è stato inserito una strumento che inietta in loro la medicina in modo continuo. Con la musica, inaspettatamente, sorridono o riescono a muovere un piede, e questo è già una conquista», dice Maria, e Marina lo ribadisce. «È come se le melodie di Maria occupassero lo spazio che una medicina non può riempire», dice. «Per questo le chiamiamo terapie non farmacologiche, perché stimolano lo sviluppo cognitivo di pazienti le cui capacità sono ridotte. Vi sono stati bambini che finché dura la sessione di musicoterapia dimenticano il proprio dolore e non hanno bisogno di medicine anche per qualche ora», asserisce la musico-terapista.

Si nota il miglioramento dovuto alle note musicali e da parte dei bambini si ottiene una comunicazione «intenzionale» prima inesistente.

Un movimento, una vittoria

La tecnica di Maria nasce sempre dallo studio del caso. Il bambino può trovarsi ogni giorno in uno stato differente: nervoso, saturo di ossigeno, smorto... «Occorre tirarlo su o farlo rilassare, oppure capire ciò di cui ha bisogno in quel momento. La musica ci riesce», dice questa donna arguta dallo sguardo azzurro e limpido. Un lieve movimento di uno che non parla e non gesticola è una grande soddisfazione per il gruppo dell’ospedale Laguna e per i familiari.

Qui con i bambini si lavora su due fronti: quello fisico (fisioterapia, terapia specifica e medicina convenzionale) e la musicoterapia, con il gioco delle emozioni di un bambino; sono stati ottenuti grandi risultati, che già altre regioni, come per esempio l’Andalusia, stanno studiando.

L’Unità pediatrica diurna si sostiene grazie all’appoggio di altre fondazioni, come Jaime Alonso Abruña e Fundación Porque Viven, che sovvenzionano i genitori privi di ogni mezzo, in modo che non vengano sospese le cure di questi bambini, per i quali una sola sedia adattata ad hoc può costare 3.000 euro. L’ospedale per gli adulti è convenzionato con la Comunità di Madrid. «Ora sono vivi. È giusto pulirli, curarli, cambiarli come se fossero destinati a vivere a lungo. Le loro famiglie hanno una particolare sensibilità per le cose piccole. Sono contente quando vedono che i loro figli mangiano un purè, perché questo significa molto, che migliorano», dice l’infermiera Marina; anche lei aspetta ora il primo figlio. Il verbo che qui si può coniugare non è curare o guarire, ma soltanto “migliorare”. «Noi cerchiamo di farli arrivare alla fine come se fossero adornati di splendidi gioielli», conclude un’altra componente del gruppo interdisciplinare.

L’unità diurna dell’ospedale ora si propone, cercando un apposito finanziamento, di rimanere aperti nei periodi di vacanze, affinché le famiglie possano riposare e badare agli altri componenti. «Qualche tempo fa una madre ci diceva che da undici anni non gode di un giorno libero», e questo conferma la necessità di far partire questo progetto, che non soltanto si prende cura dei bambini, ma cerca in buona misura di sostenere i genitori. «Sono famiglie – ci spiegano – che quando arrivano qui hanno già superato lunghe traversie. Se sono pazienti in fase acuta, li portano all’ospedale Bambino Gesù. Quando arrivano qui e li mettiamo in una vasca con l’idromassaggio, i genitori notano il miglioramento e non fanno altro che ringraziare».

Genitori coraggio

In serata Hicham e Fatima torneranno a casa nella zona di Entrevías, dove Amir dovrà essere portato fino al quarto piano, non essendoci ascensore, in una camera condivisa con i genitori, i fratelli Anîs e Malak e la famiglia paterna. «È mio figlio. In nessun momento mi viene in mente che possa morire, e penso sempre a procurargli la vita migliore». Fatima si scusa per il suo castigliano approssimativo, ma si fa capire con una chiarezza sorprendente. «Quando aveva quattro mesi ci siamo accorti che il suo cervello non era normale. Ancora oggi non ci hanno detto che cosa gli succede né come si chiama la sua malattia; dicono soltanto che durante il parto gli è venuto a mancare l’ossigeno».

Questa coppia proveniente da Alhucemas ha molte difficoltà a dargli le cure di cui ha bisogno, sia per mancanza di denaro sia per la specificità della sua malattia, tanto rara da non avere un nome. «Siamo ritornati a casa dei miei genitori in Marocco soltanto due volte. Non lo farò più, costa molto muovere Amir, e lì per ogni giorno di ospedale bisogna spendere moltissimi soldi... «Soltanto i ricchi possono tenere in casa un malato come questo», dice Fatima. «Quando arriverà il momento, morirà; frattanto, nessuno amerà mio figlio come me. È il mio angelo», ripete Fatima mentre guarda la figlia maggiore, Malak, un nome che in arabo significa “angelo”.

Érika Montañés

ABC