38. Il paradiso, meta della nostra speranza

Nell'ultima udienza generale incentrata sulla speranza cristiana, papa Francesco parla del paradiso: non luogo immaginario ma abbraccio con Dio.

Questa è l’ultima catechesi sul tema della speranza cristiana, che ci ha accompagnato dall’inizio di questo anno liturgico. E concluderò parlando del paradiso, come meta della nostra speranza.

«Paradiso» è una delle ultime parole pronunciate da Gesù sulla croce, rivolto al buon ladrone. Fermiamoci un momento su quella scena. Sulla croce, Gesù non è solo. Accanto a Lui, a destra e a sinistra, ci sono due malfattori. Forse, passando davanti a quelle tre croci issate sul Golgota, qualcuno tirò un sospiro di sollievo, pensando che finalmente veniva fatta giustizia mettendo a morte gente così.

Accanto a Gesù c’è anche un reo confesso: uno che riconosce di aver meritato quel terribile supplizio. Lo chiamiamo il “buon ladrone”, il quale, opponendosi all’altro, dice: noi riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni (cfr Lc 23,41).

Sul Calvario, in quel venerdì tragico e santo, Gesù giunge all’estremo della sua incarnazione, della sua solidarietà con noi peccatori. Lì si realizza quanto il profeta Isaia aveva detto del Servo sofferente: «E’ stato annoverato tra gli empi» (53,12; cfr Lc 22,37).

È là, sul Calvario, che Gesù ha l’ultimo appuntamento con un peccatore, per spalancare anche a lui le porte del suo Regno. Questo è interessante: è l’unica volta che la parola “paradiso” compare nei vangeli. Gesù lo promette a un “povero diavolo” che sul legno della croce ha avuto il coraggio di rivolgergli la più umile delle richieste: «Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). Non aveva opere di bene da far valere, non aveva niente, ma si affida a Gesù, che riconosce come innocente, buono, così diverso da lui (v. 41). È stata sufficiente quella parola di umile pentimento, per toccare il cuore di Gesù.

Il buon ladrone ci ricorda la nostra vera condizione davanti a Dio: che noi siamo suoi figli, che Lui prova compassione per noi, che Lui è disarmato ogni volta che gli manifestiamo la nostalgia del suo amore. Nelle camere di tanti ospedali o nelle celle delle prigioni questo miracolo si ripete innumerevoli volte: non c’è persona, per quanto abbia vissuto male, a cui resti solo la disperazione e sia proibita la grazia. Davanti a Dio ci presentiamo tutti a mani vuote, un po’ come il pubblicano della parabola che si era fermato a pregare in fondo al tempio (cfr Lc 18,13). E ogni volta che un uomo, facendo l’ultimo esame di coscienza della sua vita, scopre che gli ammanchi superano di parecchio le opere di bene, non deve scoraggiarsi, ma affidarsi alla misericordia di Dio. E questo ci dà speranza, questo ci apre il cuore!

Dio è Padre, e fino all’ultimo aspetta il nostro ritorno. E al figlio prodigo ritornato, che incomincia a confessare le sue colpe, il padre chiude la bocca con un abbraccio (cfr Lc 15,20). Questo è Dio: così ci ama!

Il paradiso non è un luogo da favola, e nemmeno un giardino incantato. Il paradiso è l’abbraccio con Dio, Amore infinito, e ci entriamo grazie a Gesù, che è morto in croce per noi. Dove c’è Gesù, c’è la misericordia e la felicità; senza di Lui c’è il freddo e la tenebra. Nell’ora della morte, il cristiano ripete a Gesù: “Ricordati di me”. E se anche non ci fosse più nessuno che si ricorda di noi, Gesù è lì, accanto a noi. Vuole portarci nel posto più bello che esiste. Ci vuole portare là con quel poco o tanto di bene che c’è stato nella nostra vita, perché nulla vada perduto di ciò che Lui aveva già redento. E nella casa del Padre porterà anche tutto ciò che in noi ha ancora bisogno di riscatto: le mancanze e gli sbagli di un’intera vita. È questa la meta della nostra esistenza: che tutto si compia, e venga trasformato in amore.

Se crediamo questo, la morte smette di farci paura, e possiamo anche sperare di partire da questo mondo in maniera serena, con tanta fiducia. Chi ha conosciuto Gesù, non teme più nulla. E potremo ripetere anche noi le parole del vecchio Simeone, anche lui benedetto dall’incontro con Cristo, dopo un’intera vita consumata nell’attesa: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,29-30).

E in quell’istante, finalmente, non avremo più bisogno di nulla, non vedremo più in maniera confusa. Non piangeremo più inutilmente, perché tutto è passato; anche le profezie, anche la conoscenza. Ma l’amore no, quello rimane. Perché «la carità non avrà mai fine» (cfr 1 Cor 13,8).

© Copyright - Libreria Editrice Vaticana